sabato 30 gennaio 2010

La paura di essere dei re


Mi scrive Leonardo:

«Son diventato un tuo fedele lettore. Dapprima mi ha attratto il tuo modo di descrivere le situazioni e poi la tua vita. Quello che racconti avrebbe del paradossale se non ci fosse la garanzia che è comunque vita vissuta e ciò merita rispetto. Albert Einstein dice che “ci sono due modi per vivere la vita. Uno è credere che i miracoli non esistono. L’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo”. Mi sembra che tu faccia decisamente parte di quelli che pensano che tutto è miracolo, e sanno stupirsi. Penso che il tuo stupore sia anche capacità di vedere ciò che altri non vedono. Io sono uno di quelli che non vedono. Non vorrei portare il mio discorso su un piano di fede religiosa. La mia cecità è esistenziale nonostante io mi senta una persona realizzata. E questo lo dicono anche i miei amici.

Ho una professione che mi gratifica. Una donna che da anni è sorgente di vita e gioia. Non so se sono diventato quello che i miei amati genitori sognavano per me. Ormai non glielo posso più chiedere. Se ne sono andati a distanza di un anno l’uno dall’altra senza aver provato la gioia di vedermi sistemato, dopo tanti sacrifici che hanno fatto per me.

Mi capita che quando mi fermo, in genere a giornata finita, i pensieri si rincorrano precipitosamente uno dopo l’altro, uno tirato dall’altro e creano in me la domanda sul senso del mio vivere. Il senso degli incontri, il senso del dolore. Il perché qualcuno agisca per fare male agli altri. Mi brucia la domanda di come mai il mondo si regga e vada avanti su sistemi di egoismo sempre più raffinati. Perché la gente si uccide? Poi quando penso ai miei genitori, che ormai tacciono per sempre, un senso di nullità invade tutto e di colpo si scolora ogni fatto, ogni speranza. Anche l’amore stesso sembra che si rivesta di passeggera relatività. Provo un indefinibile smarrimento e una nebbia di tristezza ottenebra improvvisamente quello che vedo.

Non sono diventato medico, come avrebbero desiderato i genitori. Sono un insegnante di materie umanistiche. Mi domando, se avessi studiato medicina, forse avrei potuto approfondire lo studio sull’uomo e avrei qualche pista in più da percorrere. Invece il bagaglio di filosofia che possedevo, da tempo si è già esaurito. La fede resta una possibilità. Una specie di tesoro nascosto del quale non si conosce la mappa.

Nelle tue storie c’è una fede costitutiva della tua vita stessa. È una conquista? Un colpo di fortuna che ti ha fatto conoscere la mappa del tesoro? Cos’hai tu che io non possa avere?

Tante volte misuro la mia vita con l’importanza che ho agli occhi degli altri, con quello che riesco a fare per la gente che mi circonda. Eppure mi viene spontaneo chiedermi: “Chi sono veramente io?”. Il tuo Pirandello direbbe che ciascuno di noi è “Uno, nessuno e centomila”. Sono quel “qualcuno” che io penso, o sono quello che i centomila vedono? O sono la somma di centomila volti che equivalgono a nessuno? La vera solitudine la provo quando parlo di queste cose. Colgo negli altri le stesse mie domande e l’insicurezza degli altri aumenta la mia. Non cresce la solidarietà quando si è paralizzati intimamente dalla stessa paura della vita.

Se tu avessi un segreto da vendermi, te lo pagherei al prezzo che stabilisci tu. Forse potresti rispondermi che il segreto me lo hai già rivelato attraverso i fatti della tua vita che racconti. È quella fiamma che qualcuno ha acceso in te. È una fiamma che nutri, che alimenti e proteggi. Quale Prometeo ruberà la fiamma degli dei per accendere anche me?».

Leggendo l’e-mail di Leonardo ho provato un senso di gratitudine verso lui che mi aveva scritto e verso Città Nuova che permette queste profonde comunioni. Certo, di punti interrogativi ne ho contati tanti. Poi alla Messa di quello stesso giorno il Vangelo mi sembrò scritto per me. Raccontava l’episodio dell’incontro di Gesù con la samaritana alla quale lui rivela: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. (…) … è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità".


Fu come se non avessi sentito mai la frase “Il Padre cerca tali adoratori”. Il collegamento di quella dichiarazione di Gesù con le domande di Leonardo fu inevitabile. Il senso d’inadeguatezza per non sapergli dare una risposta fu cancellato dalla certezza che chi fa la verità arriva alla luce. E la verità è amare, cioè darsi agli altri come un fiore che dà la sua bellezza senza vendersi.


Quel giorno, (e così continua il gioco del “regista”), Alessandro, un amico antropologo, mi manda una poesia di Emily Dickinson:


Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.
L'eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c'incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.


Foto di Maurizio Mosconi

martedì 26 gennaio 2010

Insieme è vincita!



Un’amica ospitava Cesare, un cugino, in una bella villa sul mare siciliano, per un periodo di convalescenza.
Prima che Cesare ripartisse per tornare nella sua città del nord, l’amica m’invitò ad andarli a trovare.
Cesare, quasi alla fine dell’università, aveva cercato di morire tagliandosi le vene ai polsi.
Mi raccontò serenamente come ora si sentisse “ricreato” e che voleva a tutti i costi vivere una vita migliore della prima.
Quando ci siamo salutati, lui con un gesto rapido, prese dalla tasca un biglietto di lotteria per regalarmelo.
“E se vinco?” gli chiesi. Lui stette a pensare, poi riprese dalla mie mani il biglietto, lo strappò in due pezzi dandomene uno.
“L’amicizia vale molto di più! Solo insieme possiamo vincere. Da soli no!”
Per strada mi ritrovai con quel pezzo di carta in mano e una grande gioia in cuore. Sì, soltanto insieme possiamo vincere, ed era stata la solitudine a spingere Cesare a uscire dalla vita.
Il mare che guardavo era quello della Magna Grecia, e fu facile pensare al vecchio simbolo della Grecia che era fatto da due mezzi anelli.
La perfezione è insieme. Una lezione indimenticabile. 


Foto di Maurizio Mosconi

lunedì 25 gennaio 2010

Quando qualcuno è insopportabile


...ok...puri come colombe, ma astuti come serpenti.
Debbo affrontare una persona, donna più giovane di me, che so insincera, non giudico, rilevo. Rivolta sempre e soltanto al suo particolare, che mi mette sempre in scacco, fredda insomma e calcolatrice..mai dice ciò che pensa..impositiva. Nei momenti per me difficili, mai mi sono sentita compresa..
Sarà quel che sarà, ma per non sentirmi ogni volta calpestata, che cosa debbo pensare e fare? ...
grazie Milena

La prima cosa che mi viene in mente è che una persona secondo la tua descrizione, è da trattare come una malata.
Chi ha delle lacune nelle relazioni è malato.
Il metro da usare è la delicatezza che si ha verso i malati, sapendo che le parole che loro dicono, i gesti che fanno sono sempre segnali della malattia.

Ciascuno di noi ha un bisogno sempre vivo di verità. La verità è Gesù ed è l’elemento vivo sia in te che in lei. È lui che può aiutarti a essere carità davanti alla persona di cui parli.
Magari ti toccherà ascoltarla per ore. Il tuo silenzio parlerà più forte di ogni tua parola e parlerà alla parte migliore di lei, alla parte vera.
Connettiti con questa forza. Avrai le parole giuste da dire quando dovrai parlare.
Chi agisce nell’amore agisce secondo la giustizia di Dio, che illumina e fa conoscere. “Chi fa la verità viene alla luce” dice Gesù.
Un incontro con tale persona potrebbe essere soltanto perdita di tempo oppure occasione di essere ricreate insieme dall’amore di Dio.
Così, anche le maschere della paura e della difesa, si disintegrano.
Grazie della fiducia che mi hai dato!
Tanino


domenica 24 gennaio 2010

Una grande storia d'amore


Il mio invisibile velo da sposa ti rivestì di nebbia evanescente
Notte di veglia, notte di attesa. Eri nascosto, eri presente

Giurai perenne amore come soltanto un’amante può fare
Mi abbracciasti mentre sentivo il ponte dietro me crollare

Come dono di Natale pensai una cella a custodir l’amore
Ma tu accendendo la stella mi indicasti mille vie del cuore

Ciascuno ha un talento per liberare il suo destino eterno
Essendo Amore acceso sempre, anche nel gelo d’inverno

Ed era freddo quando ti trovai dove alcuno ti aveva cercato
Nascosto dietro orridi cocci di dolore reietto, rifiutato

Giurai nuovo amore e mi apristi il cuore, una ferita strana
Un varco che mi portava in alto ma a tutti più vicina

Scesa nella valle gridai il tuo nome, intonai il mio canto
In un attimo raggiunsi dolori oscuri, asciugai ogni pianto

Passai come fuoco e chi si accese con me scoprì il segreto
La legge della vita, la scienza, l’arte, contemplò l’increato

Il vortice di caligine uscito dai palazzi alzò mille veli
Mi offuscò la vista, non vidi più né terra né cieli

Gli occhi incollati alla tenebra, ero la tenebra stessa
E senza tentennare rimasi lì, incessantemente fissa

Al cuore del buio, consumata d’amore aprii la nuova aurora
L’umanità che annunciava felice l’arrivo della tua ora

E sei giunto vestito con abiti che non potevo immaginare
Un trucco tuo perché ti potessi sempre incontrare

Per dirti il mio amore non avevo ormai parole nuove
Compresi che dovevo farti sempre festa in ogni dove

Festeggiato, subito, sempre con la gioia più attesa
Tu la mia vigna carica, terra feconda, terra fruttuosa

Mi identificai con gli schianti che annullano ogni libertà
E mi rassicurasti che la tua notte non ha oscurità

Dopo tanto camminare ti chiesi: la mia santità quale sarà?
La risposta fu domanda: se non mi ami tu chi mi amerà?

Ora una luce inarrestabile si espande calda da questa stanza
Che alta, lontana, vicina è diventata faro di nuova speranza.

(era il 24 gennaio 1944. Chiara Lubich sentì parlare di Gesù in croce che grida "Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?". Quel grido fu per lei una rivelazione e una chiamata. Sarà la passione della sua vita. Questo dialogo l'ho composto per lei nel 2005, fotografando alcuni momenti della sua grande storia d'amore)

Foto di Giovanni Mauceri

venerdì 22 gennaio 2010

Concerto di gala

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Ero in montagna e Alessandro mi aveva chiesto di accompagnarlo per un incontro con un collega che partecipava ad un congresso promosso da una casa farmaceutica. 


I congressisti stavano uscendo dalla sala. Alessandro trova il collega. Intanto io sbircio per ammirare l’elegante sala dell’albergo d’alta montagna e vedo, seduta ancora al tavolo dei conferenzieri, un’attrice famosa. Era proprio lei senza paparazzi e assedio di fans. Mi avvicino e la saluto. Lei, abituata a essere conosciuta, risponde con un signorile sorriso aggiungendo un inatteso “come va?”. Mi presento. Le dico che lavoro faccio, su quali binari corre la mia vita e la ringrazio per una risposta data ad un’intervista. Lei con elegante compostezza finisce di raccogliere le sue poche carte, le sistema in una grossa borsa, prende anche il bouquet che stava davanti a lei e finalmente riesce ad ammirarlo. Forse proprio per l’avanzata età, la sua bellezza emana nobiltà, serenità, felicità. Semplice com’è mi porge un braccio perché l’aiuti ad alzarsi. Porta un tailleur color verde chiaro, con dei disegni raffinati. Le maniche finiscono con dei bordi riccamente elaborati. Al mignolo della mano sinistra, quella che mi porge, ha un vistoso solitario. Ma non è questo che dà valore alla sua grazia.
Pensando che io sia uno del congresso: “sì, come ho detto, la bellezza non è un fatto estetico, ma uno stato interiore. Certo, posso parlare così perché ho vissuto le altre stagioni della vita, eppure, ne sono convinta, quello che mi ha tenuto a galla, è stata la vita con la mia famiglia che non mi ha permesso di uscire fuori dalla realtà. Ciò mi ha aiutata a dare al lavoro il posto giusto ed ha impedito che la macchina del successo mi sbranasse, come fa purtroppo con molti. Aggiungerei, con il rischio di non essere capita, che anche le sofferenze sono una cura di bellezza. Tante volte, quando guardavo le rughe della mia amata mamma, che nella vita si è consumata per noi figli, ho visto una bellezza che non si può imitare. Ho contemplato la bellezza della vita. Una volta mio padre ha fotografato mia figlia mentre correva per abbracciarmi. Una dolcezza indescrivibile. Come fai a riprodurre in scena una tale emozione? 
Sono convinta che in questo martoriato mondo che tocca una delle fasi acute di crisi, la bellezza salverà il mondo, come diceva il principe Miškin. Ma ora c’è bisogno di una bellezza integra: la bellezza che nasce dal dolore. Dopo l’11 settembre viviamo senza terra sotto i piedi. Certo non è quella l’unica insicurezza che ci terrorizza. La gente non ha più speranza”.
Le chiedo se conosce l’enciclica di Benedetto XVI sulla speranza. Mi dice di no e mi chiede se posso dirle qualcosa.
Proprio quei giorni stavo preparando una breve presentazione dell’enciclica “Spe salvi” e avevo con me in tasca la copia dove annotavo qualche commento. Leggo dall’enciclica: «… il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta  e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino».
“Sì ‑ aggiunge lei ‑, il guaio è che nessun punto di riferimento appare sicuro”. Allora le cito quanto il Papa dice sul Vangelo che «non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti, che cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro è stata spalancata».
Dopo aver fatto il brindisi assieme agli altri, la signora mi chiede di seguirla, come se volesse dirmi ancora qualcosa. Nella hall dell’albergo ci sono poltrone libere. Ci sediamo lontani dal rumore.
“Vede, una persona che ha un mestiere che la mette davanti al grande pubblico, rischia molto. Ho visto persone sane, diventare strane. Quante vittime “del pubblico”! E quanti scivolano nell’alcool, nella droga! È la macchina del successo che ti stritola. Ci vuole grande equilibrio e un corpo sociale, come una famiglia, un giro di amici, che ti aiutano. Altrimenti non ce la fai. Il successo è uno stampo che ti modella, come una foto con la quale devi sempre combaciare. La fedeltà all’immagine che altri decidono per te, ti fa impazzire. È schizofrenia. Ricorda i tempi dei telefoni bianchi? Le attrici americane erano tutte uguali. Allora era cosmesi, oggi è chirurgia. Labbra, occhi, forme del corpo. È l’industria della bellezza!  Per essere veramente belli ci vuole più attenzione agli altri e sei attento soltanto se sei sveglio”.  
Intanto era arrivato il marito a cui mi presenta ripetendo quello che le avevo detto di me. Anche Alessandro mi sta cercando e si stupisce non poco quando vede con quanta cordialità mi sto accomiatando dalla signora.
Scendendo nella valle dove alberghiamo racconto ad Alessandro della chiacchierata e ciò conferma in lui la stima che già nutre per lei. Posteggiamo la macchina davanti ad un parco.
Ci distrae una specie di tintinnio di bicchieri che brindano. Non l’avevo mai sentito un concerto così e neppure visto. Alla luce di alcuni lampioni, gli alberi scintillano. I rami, rivestiti di ghiaccio, al minimo spostamento d’aria, si muovono dolcissimamente accompagnati dal crepitio ininterrotto di cristalli che si spezzano, si sfiorano, cadono a terra mentre aumenta la sensazione di un sortilegio che cancella ogni paura.
 Quella bellezza gratuita, riempie il buio della notte di certezza. Il concerto di cristallo mi aiuta a pregare. Sento che non è lontano Colui che è la speranza del mondo.


foto di Attila Adam

venerdì 15 gennaio 2010

Chi ama è invincibile


Insegnavo nella cattedra d’italianistica nell'ateneo di una città dell'Ungheria allora comunista. Avevo un collega che occupava una cattedra importante per meriti di fedeltà all'ideologia imperante. Nella stanza dell'università che usavamo come professori mi ritrovai un giorno a rimuginare una frase che proprio lui mi aveva detto, abbassando il tono della voce e con un'insolita familiarità: “Sii prudente, non fare paragoni con l'Italia, non parlare di politica, insomma tieni presente che in ogni classe c'è qualcuno che ha il compito di tenerti d'occhio e vedere se sgarri”. Fu un pugno allo stomaco che lui, appena suscito, non poté registrare. Il colpo fu forte. Sì certo, ero ben consapevole di trovarmi in quel paese, con quell'ideologia, ma pensare che qualcuno degli studenti fosse lì apposta per cogliere qualche parola equivoca, qualche valutazione che sarebbe potuta sembrare dispregiativa verso il sistema politico vigente, qualche paragone con il capitalismo italiano...
Perché temevano che ogni straniero fosse un attentato al comunismo? E poi cosa avrei potuto dire contro un certo sistema parlando dei primi documenti della lingua italiana? Come potevo denigrare un'ideologia spiegando la storia della grammatica o parlando della poetica di Dante o Petrarca? Mi venne da ridere nel pensare a come vedevano l'occidente quelli dell'Europa est. Come se oltre la cortina di ferro ci fossero la felicità, la libertà. Che dire poi del consumismo materialista e devastante, del plagio dei mass media, del ruolo di una televisione che inebetisce? Come dire che anche l'occidente, nella sua sazietà, percepiva un senso del nulla come mai era stato prima? Con quali parole dimostrare che l'occidente libero cercava la libertà? Sì la libertà.
Decisi di cancellare dalla mia mente il pensiero che qualcuno degli alunni potesse avere il compito di spiarmi perché la prima cosa che avrei potuto fare sarebbe stata di indagare chi potesse essere quel mercenario o quell'idealista che mi aspettava al varco per cogliermi in fallo. Un tale pensiero avrebbe minato il rapporto diretto e semplice che avevo già instaurato con le varie classi.
Certo la ferita c'era, ma la sfruttai per mettere più attenzione soprattutto quando mi trovai ad affrontare la classe che mi attendeva quel giorno. Guardai studente per studente e costatai con gioia che li stimavo tanto perché vedevo in ognuno un possibile costruttore di un mondo migliore. Il mio sguardo si attardò su una studentessa che io chiamavo “principessa” perché aveva il nome di una nobile magiara e i tratti delicati di chi vive in una reggia. Era molto pensierosa. Alla fine della lezione le chiesi se c'era qualche problema. Mi disse che il figlioletto era malato e non sapeva a chi affidarlo, dato che era sola ad educarlo. Venni a sapere di più della sua vita. Le chiesi se per caso non avesse bisogno di vestiti, giacché mia sorella, che aveva due figli più grandi del suo, avrebbe avuto sicuramente dei vestitini superflui da passarle, come avviene nelle famiglie. Lei non rifiutò la mia offerta, anzi mi sembrò contenta. Così dopo qualche tempo arrivò la prima valigia. Vestiario per il bambino ed anche per lei. Alla prima valigia ne seguirono altre e ciò che non serviva a lei fu utile per altre due alunne che avevano bambini piccoli.
Passarono gli anni e nel 1989 avvenne il giro di valzer per molti paesi satelliti della grande Russia che cominciarono a girare con un'altra musica e attorno ad altri centri gravitazionali. Fu un passaggio senza sangue, sereno, anche se doloroso.
Un giorno stavo pranzando con il preside della facoltà e parlavamo dell'università, delle trasformazioni dopo decenni di comunismo, dei nuovi testi da scrivere, della difficoltà di ripartire su altri binari e, non privo di amaro risentimento, mi parlò di certi colleghi che all'indomani del cambio di bandiera si dichiaravano anticomunisti convinti, ed erano sorpresi se qualcuno li tacciava come ripugnanti opportunisti. Il suo parlare era carico di sarcasmo e voglia di sbandierare il gioco dei pupazzi. Restai di stucco quando mi rivelò i nomi di quegli studenti che, come avveniva nelle fabbriche o in altri luoghi di lavoro, anche all'università dovevano proteggere le spalle del sistema politico dai non allineati. La mia principessa era una di loro. La bellissima e delicata principessa era una spia. Proprio lei! Ed era quella alla quale avevo dedicato più attenzione.
Pensai fra me e me che evidentemente, avendo un bambino e non essendo sposata, aveva bisogno di guadagnare qualche fiorino. Non fu su di lei che il mio pensiero si ancorò. Pensai al pericolo che avrei potuto correre: “Se mi fossi messo alla ricerca della spia, certamente non mi sarei accorto quel giorno che la principessa era preoccupata!”. Il professore si accorse che ero in pensiero. Il suo rispettoso silenzio m’incoraggiò a raccontargli il fatto. “E adesso pensa di andare a leggere negli archivi cosa ha raccontato la sua fedele alunna?” mi chiese.
“Sento gratitudine per questa fragile creatura”, precisai. Il professore alzò le sopracciglia e non ebbe da dire più nulla.
Quel pranzo non so come e quando finì. Il fatto è che quel ristorante nei pressi dell'università mi sembrò che fosse diventato una cattedrale dove, nel Grande Gioco della vita, ancora una volta avevo potuto costatare che chi ama ci azzecca sempre, chi ama è invincibile.  

 foto di Norbert Durst

martedì 12 gennaio 2010

A piccoli passi


Ghiaccio ricoperto da neve nuova. Pericoloso camminare la mattina presto quando ancora non sono stati sparsi il sale e il pietrisco che favoriscono la presa. 

Davanti a me una signora anziana si dirige verso la chiesa. Io la sorpasso e … scivolo a terra.
Lei, quando mi raggiunge, dice: “Non sei di questi posti, vero? Sul ghiaccio bisogna avanzare a piccoli passi. A piccoli passi. Se vai veloce non arriverai mai”.

Alzatomi dalla neve proseguo il mio cammino al ritmo della nonnina. Mentre saliamo i gradini antistanti la chiesa, la vecchietta mi dice: “La natura insegna come vivere. Quanta gente corre e non arriva mai!”. Le dico che per me, che sono siciliano, la neve ha sempre qualcosa di magico. E lei, prima di entrare in chiesa: “Ogni magia ha anche la sua maledizione. Stai attento, figlio mio!”

Foto di Attila Adam

lunedì 4 gennaio 2010

40 anni di stupore

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Dopo 40 anni, ripensando alla mia decisione di rispondere alla chiamata di Dio, si è ripresentata alla memoria una scena che col tempo non ha perso i margini ma ha rafforzato la sua carica emotiva.
Da Loppiano, lontana circa 20 Km, andavamo tutti i giorni a Firenze per vendere libri, casa per casa. Erano gli anni del boom economico. I condomini erano letteralmente presi d’assalto da persone, in genere uomini in cravatta, eleganti, ventiquattrore di similpelle, con depliant coloratissimi, che offrivano lucidatrici di pavimenti, pentole, detersivi miracolosi, enciclopedie di tutte le misure e di tutti i colori, corsi di inglese per persone anziane… insomma anch’io ero un venditore. Avevo uno zaino carico di libri e di desiderio di svuotarlo. Pesava. Io che fino a qualche mese prima avevo studiato greco e latino ero tra quelli che non sanno fare niente e ai quali venivano affidati i lavori più impensati. Per settimane avevo selezionato per delle ditte di Prato ritagli di stoffa, secondo il colore e il materiale, poi dall’Olanda le balle di “stracci”, come li chiamavamo, non erano arrivate così noi, che venivamo da vari continenti, eravamo stati costretti a fare altro per mantenerci nella nascente utopistica cittadella del Movimento dei Focolari, sorta qualche anno prima sui colli toscani e che cominciava a essere conosciuta. A Firenze andavamo con un pulmino, un secco pranzo a sacco e lo stradario di una città che pensavamo aspettasse impaziente i libri di Città Nuova! Giravamo nelle periferie della raffinata città perché i portinai dei palazzi del centro ci cacciavano via.
La pallida stanchezza con la quale di sera tornavamo a casa fece capire che durante i vari giri almeno una minestra calda sarebbe stata necessaria. 
In una trattoria, una fredda giornata di febbraio, attendo la minestra. La trattoria è piena di anziani soli, gente assonnata di stanchezza o di vino, assiderata di solitudine. Entra una coppia di innamorati. Il loro modo di muoversi attira la mia attenzione. Delicati, paurosi, fragili. Non è gente che va tutti i giorni in trattoria. Occhiaie e debolezza. Sazi d’amore ma non di pane. Vedo in loro la metafora della mia vita. Per amore non ho casa, per amore sono povero e non so cosa sarà di me domani. Per amore. Quale amore?
Ho lasciato la mia città, la mia casa, i miei progetti. A un certo punto qualcuno, con la rapidità di un fulmine, invade il mio campo, azzera i miei calcoli e mi propone di ricominciare. E stavolta il progetto non è nelle mie mani, quindi una vita in dialogo con … l’infinito. Io stesso non so cosa mi stia succedendo. L’unico pallido paragone è l’innamoramento. Di colpo tutto si colora di una dimensione fino a quel momento occulta. In una stanza buia si apre improvvisamente una finestra. Vedi cose che prima non vedevi. Con una potenza misteriosa che disarma la ragione vieni chiamato a uscire dalla tua terra, come Abramo, e andare verso una terra che ti sarà indicata. Una terra ancora ignota. Stai seguendo un altro, le orme di un altro. Non avrei mai immaginato che la mia vita prendesse una tale direzione. Per quanto credente, mai avevo pensato a una decisone che mi tagliasse fuori da quel giro di avvenimenti prevedibili e sereni, dalle amicizie, dai parenti, dalle feste e soprattutto dalla mia città dove mi vedevo sistemato e felice. Guardo gli innamorati. La radio dalla cucina fa arrivare, col fumo pesante del fritto, una canzone cantata da Gino Paoli “Gli innamorati sono sempre soli”.
Non sembra che mi abbiano fatto un lavaggio di cervello, come continua a scrivermi un’amica. Fuga? Da chi, da che cosa?
Che io non abbia un carattere forte è vero, ma la spinta che mi ha fatto fare la follia di lasciare i miei progetti, per mettermi in ascolto di un altro, non ha niente a che fare con la personalità. È un misterioso amore. Un amore che mi rende solo. Un amore necessario per rivolgermi agli altri, a tutti. Non tornerei mai indietro. Quello che ho trovato supera il valore di tutto il percorso fatto fin’allora.
Gli amanti si coccolano. Negli occhi di lei un velo di tristezza. Penserà alla sua famiglia? Soffriranno per colpa sua, non accettano il suo amico? Sarà fuggita da casa?
E mi chiedo perché la scelta che ho fatto è causa di dolore per altri. Ho scelto di essere scelto da Dio.
Guardo quegli innamorati pallidi, felici e poveri. Unico bene il loro amore. Come me, anch’essi mangiano soltanto una minestra calda. Non di più.
Lui guarda i posacenere sui tavoli di unta formica celeste. Forse cerca qualche cicca da fumare. Lei guarda un anziano grasso che divora una cotoletta.
Seguo i lineamenti delicati di lei. Raggiungo la faccia rotonda dell’anziano. Anche lui è come me, come lei, come gli innamorati. È solo.
Svuotato il piatto di minestra mi preparo a uscire dalla trattoria. Cappotto, zaino.
Un’occhiata ai giovani. Non so come, mi è spontaneo salutarli. Mi rispondono con dolcezza.
Uscito per la strada anonima, dominata da un traffico senz’anima, quella coppia innamorata mi sembra mi abbia donato un fiore delicato, senza protezione. Vorrei regalare loro qualcosa. Ma cosa? Il loro amore li rende inavvicinabili. La loro povertà li fa ricchi, potenti.
Mi distraggono due stranieri che chiedono qualche indicazione. Cominciamo a parlare e facciamo un pezzo di strada insieme. Jacques, che studia arte drammatica a Parigi, fa uno stage in Italia e non poteva mancare la visita a Firenze. Marianne studia scenografia a Roma. Racconto perché sono a Firenze ed è ineludibile usare la metafora degli innamorati appena incontrati.
Parlare di Dio che mi ama, in mezzo al traffico violento, alla gente spenta, alle vecchiette sospettose, è ancora più stridente. Jacques mi dice che non sente il bisogno di avere una fede anche se ha una sua religiosità intima dove trova rifugio.
Salutandomi, Marianne dice: “Tu, hai scelto liberamente il tuo stesso destino. Hai negli occhi una certezza che non lascia indifferenti. Questo incontro sembra la mossa di un regista nascosto”.
Mentre li vedo allontanare finisco di cantare la canzone di Paoli degli innamorati che sono “gli unici padroni del mondo”.

 Dettagli vetrata "profeta Amos" di Marek Trizuljak